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Pat Metheny: Kin e la musica tweettata
Pat Metheny: Kin e la musica tweettata
di [user #16167] - pubblicato il

Questa è una di quelle interviste che anche se lunghe vanno gustate fino all’ultima parola. Parlare di musica con una delle menti più geniali del pianeta ancora in circolazione è un’esperienza davvero unica che abbiamo cercato di farvi rivivere portandola nero su bianco.
Questa è una di quelle interviste che anche se lunghe vanno gustate fino all’ultima parola. Parlare di musica con una delle menti più geniali del pianeta ancora in circolazione è un’esperienza davvero unica che abbiamo cercato di farvi rivivere portandola nero su bianco.

Denis Buratto:
La formazione e gli arrangiamenti per questo nuovo album sono stati concepiti così fin dall’inizio oppure sono stati decisi in corso d’opera?
Pat Metheny: Il mio vecchio album Unity band aveva molti collegamenti con i miei lavori precedenti, 80 81 avevo usato il sassofono ed era anni che non lo facevo. Ero in attesa che arrivasse qualcuno come Chris Potter. Ci eravamo visti qui un anno fa e poi siamo partiti per la tournee ed è stato un anno davvero incredibile. Ci siamo trovati dopo cento e passa concerti ed eravamo tristi di non poter continuare. Tutti avevano i loro impegni e quindi abbiamo deciso di trovarci nel 2013. Ora dovevamo capire cosa fare e sapevo che c’era un potenziale in questa band per creare davvero di tutto. L’idea iniziale della Unity Band era di cercare di mettere sotto un unico tutto tutte le mie esperienze. Mi sono reso conto che mancava un elemento e quindi ecco che ho fatto entrare nella band un tuo connazionale Giulio Carmassi, un musicista davvero unico.

DB: In che modo è unico e come l’hai conosciuto?
PM: Avevamo un amico in comune, Will Lee, bassista di David Letterman, che mi ha chiamato e mi ha detto che dovevo assolutamente conoscere Giulio, un ottimo musicista ausiliario e factotum, quello che mi serviva. Soprattutto il suo ruolo è stato quello di spronarmi a fondo tirare fuori tutto il potenziale e scrivere musica nuova più ampia. Lui sa improvvisare, ma con Chris nella formazione non avevo bisogno di un altro soloist ma ancor più di qualcuno che mi stimolasse ad allargare i confini, con ancora più possibilità espressive. Lui suon molte cose anche il piano e canta, fantastico.

DB: Il simbolo accanto al titolo vuole spiegare questa tua visione in technicolor della musica di cui parli sempre?
PM: A dire il vero non avevo pensato a questa spiegazione ma posso cominciare ad usarla ora! (ride) Il simbolo onestamente all’inizio non era legato al nome. Kin, l’avevo bene in mente come titolo da usare, è una parola particolare che ha a che fare con antenati, famiglia, amicizia, insomma il ceppo che ci accomuna, inoltre avevo la visione di questo simbolo ma non sapevo come usarlo. Allora ho deciso di proporlo al grafico dicendogli di decidere in un secondo se fosse cool oppure no. È un valore esplicativo aggiunto, Kin porta a pensare molto al passato ma io volevo dare anche una certa connotazione per il futuro in espansione.


DB: Come è stato realizzato all’atto pratico l’album?
PM: Il precedente l’abbiamo fatto in 2 giorni, questo ha richiesto ben due settimane. Molto più complesso, i pezzi sono intricati, ritmicamente difficili. Sicuramente con un approccio diverso. Nel precedente abbiamo suonato varie versioni dello stesso brano per poi scegliere quella che preferivamo, in questo però no. Anche per i musicisti non è stato per niente facile imparare a suonare brani lunghi anche 12 minuti. Ci sono dinamiche complesse, ha richiesto un approccio molto più impegnato. La versione technicolor di quello che ho fatto prima praticamente. Mi ha divertito molto lavorare con la stessa band a due progetti così diametralmente opposti, uno più diretto e spontaneo l’altro più posato e ricercato.

DB: Quanta libertà hai lasciato ai musicisti durante la registrazione?
PM: Ci sono molti Tipi di libertà. Quando suoni musica che ha una composizione molto marcata e ricercata, come la musica classica, hai una libertà molto limitata. Puoi fare ottanta concerti identici in linea teorica, mentre all’esatto opposto troviamo un concerto di sassofono di Parker decisamente più libero e volutamente senza regole. Interessante anche verificare la quantità di libertà che puoi lasciare a un solista quando si ha comunque musica composta fin nei dettagli. La sfida è quella di avere un pezzo molto strutturato ma che lasci allo stesso tempo molta libertà all’esecutore. Questo è un tipo di approccio che ho usato molto negli ultimi 40 anni di attività. Se fai bene le cose sono due componenti che si amplificano uno con l’altro. Per esempio scrivo una storia su questa tazza (ne indica una), dico ai miei musicisti dovete parlare di questo bicchiere come volete, ma non potete parlare di vasi o lattine o barattoli, solo di tazze. Quindi potete parlare di una tazza che arriva dallo spazio, la tazza di vostra mamma oppure la tazza che avevate da bambino, ma sempre una tazza deve essere. Nel momento in cui uno preso dalla frenesia dice “a me piacciono anche le lattine” io lo fermo perché si sta parlando solo di tazze!
Questa ovviamente può sembrare una restrizione, ma in ogni cosa ci sono dei limiti. Io stesso quando vado a lavorare su progetti altrui preferisco che mi diano dei limiti, un indirizzo, adoro quando mi dicono “si parla di tazze!”. L’ambiente di improvvisazione in questo album è molto specifico, ma avendo a che fare con dei grandi musicisti non è stato affatto un problema. Per esempio Chris, che è un compositore e Antonio (Sànchez batterista) musicista molto alla mano non hanno bisogno che gli si dica quali sono i limiti della composizione perché loro stessi sono compositori, Anzi spesso mi mostrano loro altri dettagli e mi propongono cose che magari a me erano sfuggite come una piccola scritta sotto la solita tazza.
 

DB: E live cosa succede? Queste restrizioni restano?
PM: Bisogna prima di tutto entrare nel discorso e capire bene cosa si intende per liberà e restrizione. Io ho suonato con la Art Ensemble Of Chicago, per una serie di spettacoli che erano venduti come free, totalmente liberi. In realtà mi sono reso conto che ascoltandoci ogni serata lo spettacolo era comunque molto simile nonostante la libertà totale. Al tempo stesso mi è capitato di seguire un altro grande professionista per una serie di spettacoli con un repertorio tutto fatto di standard e ogni solo che faceva sembrava scritto nota per nota, ma ogni sera era totalmente diverso. Intanto c’è da dire che c’è questa mitologia riguardo l’improvvisazione che vuole che ognuno si reinventi tutte le volte completamente. In realtà non è così, nemmeno Coltrane era in grado di ripartire da zero sempre. Abbiamo tutti una certa voce e riproponiano alcune costanti. Noi faremo nello specifico 200 date, non sono sicuro che sul lungo periodo quindi le cose potranno restare sempre identiche.
Quello che tu cerchi come musicista è l’incontro magico tra quello che speri di raccontare e un attimo, che è legato al pubblico, alla serata al clima. Il brano è un trampolino di lancio, ma dipende poi da quello che tu ci metti. Quando parti da delle good notes, della musica buona tutto è più facile. In questo caso io spero che ci sia, questo ti permette di reinventare la situazione e quindi l’energia che ti torna dalla serata può cambiare quello che stai suonando. Quindi il mio obbiettivo è creare un ambiente per chi suona e chi ascolta con le condizioni per comprendere il messaggio tramite il mezzo che è la mia musica. Potrei parlare di questo per ore ma mi fermo.


Pat Metheny: Kin e la musica tweettata

DB: Sei ancora disturbato dai cellulari che filmano durante i concerti?
PM: Sai, sono abbastanza vecchio da questo punto di vista, appartengo a una generazione diversa, le mie reazioni sono basate su una cultura che sta scomparendo. Devo accettare quindi questa cosa, la situazione per quello che è. Questo gesto però assieme a tanti altri mi fa pensare che in realtà chi lo sta compiendo non è completamente rapito dalla musica ma anzi se ne sta staccando. La mia reazione è quindi quella di semplificare le cose che sto suonando, quasi a voler richiamare di nuovo l’attenzione. Io però non sono molto bravo a riassumere e semplificare, se ne fossi stato capace probabilmente avrei suonato pop. Io non sono un musicista da quaranta caratteri, non posso tweettare la mia musica. Onestamente è un suicidio culturale al momento, ma dall’altra parte ho una certa età e ho visto corsi e ricorsi per quanto riguarda la musica nei dei decenni. La mia convinzione è che alla fine la buona musica vince sempre, non importa se in generale la gente è distratta. Certo, prima o poi non sopporterò più certi comportamenti e deciderò di starmene a casa! Devo comunque ammettere che la mia opinione in questo sta passando alla minoranza.

DB: duecento date sono tante davvero, non ti spaventa un tour così lungo?
PM: Credo che sarà un anno molto divertente. La band sicuramente è un mix straordinario di personalità. Un gruppo intenso, preparato e straordinario, quindi sono molto rilassato a riguardo, so a che cosa vado incontro. A casa ho tre bambini piccoli e la mia tolleranza quindi verso i capricci degli adulti è pari a zero. Fortunatamente in questa band non ci sono drammi e tragedie. Questo gruppo è perfetto per me dal punto di vista personale. Inoltre loro sono davvero come me e suonano al 100% ogni serata.. Io ogni volta che suono lo faccio come se fosse l’ultima, non ammetto serate no! Ogni concerto è il concerto più importante del tour e anche loro lo fanno. Per quanto riguarda Giulio invece non so bene, perché lui non ha mai fatto nulla del genere, è un po’ come prendere un giovane e portarlo a giocare in nazionale. L’impegno sarà gravoso anche fisicamente, ma so che lui è pronto e me l’ha già dimostrato. Quindi gli credo e so che ci divertiremo.

DB: Quindi nella Unity Band non c’è il clima che si respirava nel trio con Joni Mitchell e Pastorius.
PM: Assolutamente no, quella era una band traumatica, tragica! Il carattere di Joni era terribile…

DB: Ma hai qualche bel ricordo?
PM: Lei non aveva bisogno di quella band e quindi la parte migliore era quando suonava da sola. Onestamente non era molto interattiva, non si interessava molto a quello che facevamo, era come se non fosse lì.

Pat Metheny: Kin e la musica tweettata

DB: Visto che con questo album hai voluto ripercorrere un po’ la tua storia ti sei per caso posto l’obbiettivo di migliorare quello che avevi fatto in passato?
PM: Sai, in realtà non sono io che devo quantificare cosa sia meglio e cosa peggio. Certamente non sono spaventato nel ripercorrere quello che ho già fatto, so quali sono i miei gusti e le mie ispirazioni e non ho paura che si senta. In realtà le mie preferenze, i miei accordi preferiti, i miei giri armonici ideali sono conosciuti, ma sono quelli che mi rendono riconoscibile. Questa è una cosa che non combatto, anzi la assecondo. Parlavo poco fa con altri giornalisti di Astor Piazzolla, un musicista che pur restando sempre riconoscibile e legato al suo mondo musicale diciamo di nicchia ha comunque saputo esprimere una varietà enorme. Quindi non ho l’obiettività necessaria per capire se sono andato avanti, se ho migliorato o no. Cerco sempre di pubblicare quello che suona bene alle mie orecchie.

DB: Sei stato inserito nella Wall of Fame di Downbeat, ma al quarto posto, i primi tre occupanti non sono chitarristi. Pensi che in qualche modo nel jazz sia considerata uno strumento in secondo piano la chitarra?
PM: Bella domanda, la chitarra è difficile da inserire in un contesto jazz. Ha un range limitato sia come dinamica che come suoni rispetto a un pianoforte o a un sassofono. I chitarristi jazz quindi che restano nella memoria sono quelli che hanno introdotto qualcosa di nuovo non a livello tecnico ma a livello concettuale. Qualcosa che va al di là di quello che lo strumento può fare, un modo di pensare la musica oltre lo strumento, che è il mezzo per farla ascoltare. I miei contemporanei Frisell e Scofield suonano benissimo ma quando pensi a loro ti viene in mente un suono, un approccio, una cosa che è più in alto del semplice strumento.

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