Un vecchio detto siciliano dice: “Impedimentu è giovamentù”. Ovvero: più siamo sfigati e più (in teoria) dovremmo trarne beneficio.
Conosco ciechi che hanno fatto di necessità virtù affinando l’orecchio e imparando a suonare divinamente il pianoforte. Conosco persone per niente cieche che hanno fatto di furbizia virtù affinando l’ingegno e imparando a fregare divinamente l’I.N.P.S.
Conosco persone che di fronte un cieco aprono gli occhi e stanno attenti alla minima piccolezza. Istinto iperprotettivo.
Conosco persone che di fronte ad un ‘per niente cieco’ chiudono un occhio e con l’altro contano la mazzetta ricevuta. Quel che si dice fidarsi ad occhi chiusi.
Il mio diritto alla pensione d’invalidità me lo portavo in corpo come un figlio che all’ottavo mese non la smette di scalciare. Ero affetto da dolori intestinali cronici tanto forti che non riuscivo più a lavorare.
Ero la prova vivente che qualche volta i detti popolari sbagliano, e quando lo fanno sono dolori.
Non riuscivo a trarre alcun giovamento dalle mie coliche che il dottore si ostinava a chiamare epatiche; io, invece, le chiamavo coliche apatiche perché mi infliggevano quella irresistibile voglia di non aver voglia di far niente. Avevo naso per certi accostamenti frasali, quando un concetto era buono me lo sentivo dentro, questione di pancia. L’arte è dolore.
Ritrovarsi a quasi quarant'anni con una pensione lussuosa e nessunissimo tipo di responsabilità fa accapponare la pelle, il problema è che tutto ciò scatena l'invidia di chi ti sta vicino. L'ostilità degli invidiosi: altri dolori di pancia.
Passai dall'altra parte di barricate che in realtà non esistevano, fatte di pregiudizi a priori, rivalità scaturite dall'istinto di trincerarsi dietro un punto di vista, razzismo dovuto non dall'invidia del pene ma piuttosto dall'invidia della pena. Subii una ghettizzazione della colica.
Somatizzai quell'emarginazione in modo deciso, avevo più di un pelo sul mio stomaco. Che i dolori fossero dovuti all'incarnarsi di qualcuno di questi? Mi tenni il dubbio, il dolore e la pensione. Cambiai una cosa sola: la casa.
Andai a consumare il supplizio delle mie budella dall'altra parte della città, comprai un villino in una zona cool, con piscina indoor e giardino stile british outdoor. La prima cosa che feci fu iscrivermi ad un corso di inglese.
Ora capisco che, per uno affetto da coliche, imparare la lingua di un popolo che non usa il bidet può sembrare un attimino sconveniente, un'eventuale gita in Inghilterra avrebbe necessitato il doversi assicurare un piatto doccia a portata di mano anche alla minima scorreggia. Diciamo che lo feci per farmi nuove amicizie, tanto avrei evitato accuratamente di espatriare. Avere la diarrea e trovarsi in Italia può comunque considerarsi una fortuna. Siamo un popolo di santi, poeti, navigatori e defecatori igienici.
Il primo giorno di lezione mi imbottii di antidolorifici un po' come una quindicenne alla prima uscita in discoteca si infarina le tettine di brillantini. Avevo voglia di normalità (di conseguenza l'esempio della quindicenne mi sa che l'ho sbagliato).
Feci amicizia con Jennifer una bellezza simmetricamente perfetta, plastica come Pamela Prati prima della plastica. Un'opera d'arte perfettamente divisa a metà. Metà identiche benché opposte.
I sue seni erano specularmente grossi, quasi pesanti, vicendevolmente simili, sincronizzati come i glutei che sembravano l'uno il riflesso dell'altro. Più che una bellezza da infarto, Jennifer era una bellezza da ictus.
Giudicai ovvio il tentare di conquistarla un pezzo alla volta, magari metà e metà.
Feci leva su l'unico argomento che conoscevo davvero bene: le malattie croniche. Una donna o la fai ridere o la fai piangere, se non riescono nessuna delle due, ti conviene provare a stupirla con l'enciclopedia medica.
Scoprii che era particolarmente preoccupata per quattro o cinque nei che le si erano disegnati sulla pelle, offrii il mio occhio clinico (e il mio stomaco colico) per studiarli attentamente.
Fu cosi che finimmo a casa sua per una cenetta a base di risotto allo zafferano, angiomi e malattie della pelle.
Jennifer abitava in una casa di campagna appena fuori città, tutt'intorno proliferavano fattorie vecchio stile. Praterie aspramente recintate ospitavano silenziosi ruminanti. Mi venne in mente una poesia di Carducci che recita “T'amo pio bove e mite un sentimento di vigor e di pace al cor m'infondi”. Molto probabilmente il grande Vate era stato a cena dalla nonna di Jennifer.
Io non ero né poeta né tanto meno Vate, soffrivo di una forte dipendenza dai water questo si, infatti come lirico facevo cagare.
Comunque esaurii presto le mie conoscenze mediche, di conseguenza mi venne una voglia matta di giocare a far il dottore con la mia ospite. Cominciai a sbottonarle chirurgicamente la camicetta mentre con l'altra mano le accarezzavo la guancia.
“Che fai?! Potrebbe vederci qualcuno”.
“Ma se siamo soli in mezzo alla pampas chi vuoi che ci veda? Qualche mucca?”.
Lei quasi si convinse, però immediatamente dopo qualcuno di cornuto suonò alla porta, non era una mucca, non era un ariete. Era il marito di Jennifer.
Troppo preso dalle sue bellissime due metà avevo dimenticato di chiederle se ne esisteva una terza, quella cosiddetta dolce, quella che iniziava con una luna di miele e finiva con una stanzetta in più per la suocera.
Dimenticai le coliche, gli antidolorifici presi e i nei di quella moglie fedifraga. Sgattaiolai fuori dalla finestra sul retro come un gatto con gli stivali: goffamente e rumorosamente.
La campagna improvvisamente s'animo di suoni inaspettati, un abbaiare in lontananza mi mise in allarme. Mi vidi arrivare contro due cani pastore che volevano confessarmi a morsi le chiappe.
Fuggii in quell'italica pampas come fossi il Che ai tempi della rivoluzione boliviana. E fu lì che l'incontrai.
Era un toro nato tra i freddi ostinati di febbraio. Un toro acquario.
Acquario ascendente leone, già da questo si capiva che era destinato a soccombere.
Lo avevano decoglionizzato prima dell'estate, prima che riuscisse a sciancare qualche mucca inerme. Nonostante questo qualcuna ancora gli si avvicinava, non aveva intuito la menomazione e gli ostentava davanti il suo desiderio di essere ingroppata. Era una vacca ninfomane. Una porca. Porca vacca.
Cosi andai imprudentemente a rompere i coglioni a quel toro scoglionato, la vacca (porca) si impaurì e scappò lontano. L'evirato s'imbufalì, leggevo nei suoi occhi la rabbia, dalle narici usciva la condensa dei suoi nervi incandescenti, fumava come un turco: era un evirato arabo.
Tutto questo non aveva fatto altro che palesare sempre più la mia presenza in loco. Il marito quasi gabbato e il toro irrimediabilmente scoglionato si lanciarono al mio inseguimento. Credetemi, quattro corna che ti inseguono fanno dimenticare qualsiasi mal di pancia.
Poiché loro avevano le corna in testa io decisi di mettere le ali ai piedi, correvo all'impazzata.
Il toro si ruppe quasi subito le palle ad inseguirmi (decaduto il simbolo rimane il modo di dire).
Il marito invece era sempre più incazzato nero, mise anche lui le ali, un cornuto con le ali diventa un diavolo.
I muscoli dei polpacci mi bruciavano, in lontananza vidi una piccola chiesetta quasi diroccata, mi ci rifugiai dentro. Il diavolo non osò addentrarsi tra quelle acquasantiere o, più probabilmente, credette che non potessi essere cosi stupido da andarmi ad incastrare da solo. Continuò a correre nella prateria fino a sfinirsi.
Il giorno appresso rividi Jennifer al corso.
“Perché non mi hai detto che eri sposata?”.
“IN ENGLISH PLEASE!” gridò l'acida insegnante dalla cattedra.
“Why don't you tell me to be married?”.
“Sorry I don't understand” mi rispose sorniona.
“La prossima volta ci vediamo a casa mia” risposti per stare al gioco.
“IN ENGLISH PLEASE!”.
Era la seconda lezione e avevo imparato pochissima frasi, avrei dovuto rimandare quella proposta ardita a tempi migliori.
La sera sentii suonare al campanello, era Jennifer.
“Cosa ci fai qui?”.
“Non mi avevi invitato?”.
“Si ma non pensavo di vederti già stasera”.
“Ti ho voluto fare una sorpresa”.
Recuperammo tutto il tempo che ci era stato negato la sera prima, abbandonai la chirurgia per dedicarmi ad una più efficace delicatezza da manovale.
Le strappai di dosso i vestiti e me la ritrovai davanti in lingerie. Le mie mani tremanti scendevano verso zone sempre più proibite, la temperatura aumentava, ero quasi al nucleo incandescente di quel meraviglioso pianeta che era la mia imminente amante.
Le appoggiai una mano sul pube, trasalii.
Una strana protuberanza pulsava fuori luogo in quel corpo statuario da modella. Ripensai al toro della sera prima, mi sentii come quella vacca che non aveva avuto la brillante idea di controllare se il suo concupito avesse o no gli attributi fallici che potessero renderla felice. Jennifer li aveva...