di aPhoenix90 [user #22026] - pubblicato il 12 giugno 2013 ore 18:13
Come qualcuno sa già, il 3 giugno sono andato al concerto di Springteen a San Siro. Fosse un concerto qualunque sarebbe ormai troppo tardi per parlarne. Ma tutto si può dire di un concerto di Springsteen tranne che sia un concerto qualunque.
Sebbene fosse un po’ di tempo ormai che l’idea di andarlo a vedere dal vivo mi stuzzicava insistentemente, non mi sono mai definito un vero e proprio fan del Boss. Da una settimana a questa parte sto meditando seriamente di cambiare idea. Da qualche parte un giornalista scriveva che Springsteen dal vivo è un’esperienza quasi religiosa. Non ci volevo credere, pensando fossero dicerie avvolte nelle tante leggende che i superfans alimentano attorno al loro idolo, ma in effetti non saprei come meglio descrivere quest’esperienza.
Se è lecito partire con la previsione di assistere a deliri di massa e karaoke da stadio, a metà concerto si matura la consapevolezza che previsione e convenzione siano due vocaboli sconosciuti a chiunque stia condividendo quello spazio così grande, ma nel contempo così piccolo, di San Siro. Scopri che prato e terzo anello sono solo futili discolpe per differenziare il prezzo del biglietto: una volta dentro i sessantamila adepti si fondono in un’unica entità fisica, recitando come preghiere i testi a memoria, dipendenti e stregati da ogni singolo movimento del Boss.
Sessantatre anni solo sulla carta, Springsteen ci regala uno show di 210 minuti veri, 34 canzoni in scaletta (... ma quale scaletta?) di cui l’intero Born in the Usa, per omaggiare la prima volta a Milano nel 1985 durante l’omonimo tour (non si risparmia nemmeno con i discorsi in italiano). Da allora sono passati 28 anni e 5 concerti, le cui immagini scorrono nei maxischermi come le diapositive dell’album di famiglia. Come a dire, ogni show è un mondo a sé, ed è un mondo meraviglioso.
Di assistere a qualcosa di unico e irripetibile lo si capisce fin dalle prime note. Qualcosa che racconterai ai tuoi figli dicendo cose del tipo: «Io quel 3 giugno a Milano c’ero». Lo vedi entrare sulle note di Ennio Morricone e battersi la mano sul cuore davanti alla coreografia della tribuna che recita «Our love is real», e lo vedi andar via dopo più di tre ore con l’armonica in bocca dopo aver suonato Thunder Road da solo insieme al suo pubblico. Pelle d’oca e lacrime.
Non ho ancora smaltito l’entusiasmo. Per la prima volta ho assistito ad un concerto fatto non per necessità da parte dello showman di turno di farsi vedere in pubblico per ricordare al mondo di essere ancora vivo, ma per necessità di un uomo di condividere la propria vita insieme ad una famiglia composta da sessantamila persone.
Tornerò. Potete star certi che ci tornerò da Bruce. Consapevole di vedere ogni volta qualcosa di nuovo.