Anche le capre hanno la cellulite, ora lo so.
Da bambino l’unica mia certezza incrollabile era che – spesso - anche le pulci hanno la tosse. Me lo diceva sempre mio padre quando la mia vocina era uno spillo senza punta ma il mio cuore si sentiva un randello nodoso. Quando, non potendo fare la voce grossa, facevo la faccia truce. Non funzionava: i bambini smettono di far paura esattamente l’attimo dopo la loro venuta al mondo.
“Ora anche le pulci hanno la tosse!” mi diceva quando tentavo di far valere le mie ragioni. Le ragioni di un bambino sono torti drogati dal pianto.
Le pulci hanno la tosse ma i cani non lo sanno. I cani sono portatori sani di pulci ammalate, inchiavicate di catarro fin dentro le loro microscopiche ossa.
Anche le pulci hanno le ossa, forse. Non ho mai visto una pulce dal vivo; la pulce l’ho imparata dalle parole dei miei genitori. “Le tue parole mi hanno messo la pulce nell'orecchio”. Ergo: la pulce è un animale letterario, che è un po’ come essere leggendario, ma con più prove a proprio favore.
Anche le capre hanno la cellulite, ora lo so.
Questa è una delle certezze della mia vita e, insieme a quella sulle pulci, fanno due. Due certezze vitali. Tentarono di convincermi che l’unica cosa certa è la morte, voglio non crederci. Tutti quelli che l’hanno affermato poi sono morti, a me non piace avere sempre ragione.
Le capre hanno la cellulite, fidatevi.
Era l'estate del mio decimo compleanno. Ero nato ad agosto, fu un problema non indifferente per chi come me è nato con la camicia: faceva caldo. Nacqui con la camicia ma me la tolsi quasi subito: si sudava troppo.
Nascere fu il primo dolore che diedi a mia madre, dieci minuti dopo feci soffrire anche mio nonno: non mi avrebbero chiamato come lui. Un quarto d'ora di vita e già avevo seminato ettari di tristezza.
Mi chiamarono Andrea come la croce che sta vicino alla ferrovia. I miei genitori si fermarono ad un passaggio a livello chiuso in attesa di un treno; se si fossero trovati in Svizzera magari io ora non sarei nemmeno qui a raccontarvi come andarono le cose. Ma in Italia i treni passano in ritardo, i miei futuri genitori aspettando aspettando si abbandonarono a qualche effusione. Il resto lo consumarono in una piazzola di sosta poco distante. Non so chi arrivò prima, se mio padre o il treno; di certo mia madre quel giorno, a saperlo prima, avrebbe preso sicuramente l'autobus.
Se sono nato lo devo ad un ritardo di un treno. Nemmeno ero al mondo e già la mia vita era segnata da due ritardi: quello di un treno e quello di mia madre tre settimane dopo. Forse per questo la Svizzera è così poco popolata: nessuno ammette ritardi, né donne né treni.
Come dicevo, era l'estate del mio decimo compleanno, le candeline erano un problema.
Ad ogni torta su cui soffiavo affidavo un desiderio, di anno in anno sempre lo stesso; desideravo che facesse fresco.
Così arrivava l'inverno. I desideri si avverano raramente ma, quando lo fanno, secondo me esagerano.
Avevo dieci anni, la certezza delle pulci, due ritardi e due dolori inflitti. Eppure sentivo che nella mia vita mancava qualcosa, qualcosa di fondamentale. Poi arrivò la scoperta della cellulite delle capre.
Nella vita bisogna capire, farsi capire, far finta di aver capito.
Io avevo capito, cosa di preciso non saprei, però avevo capito.
Ad esempio avevo capito che le donne prima o poi avrebbero smosso qualcosa nella mia vita. Capii qualche anno dopo che smuovevano e come, sia la vita che un po' più sotto.
L'estate del mio decimo anno di vita vidi per la prima volta un giornale pornografico. Non so spiegarmi bene il perché ma, nonostante fosse davvero la prima volta, in me c'era una radicata consapevolezza di cosa fosse quell'oggetto.
Ne avvertii il senso di proibito, ne palpai gli orizzonti oscuri e maliziosi; imparai che, in fondo, le immagini sono molto meglio delle parole.
Ritagliai una tetta e me la misi in tasca. Non potevo (non sapevo) nascondere un oggetto così grande. Allora decisi di tagliuzzarne una parte, quella che per un incomprensibile motivo ritenevo la più importante.
Allora me ne andai in giro con una tetta nella tasca. Ogni tanto infilavo la mano per palparla, finché mi tagliai con il bordo della carta. Fu la prima volta che una donna mi ferì.
Così capii che una donna non puoi tenerla in tasca. Una donna non sei mai sicuro di averla davvero e, anche se possiedi una sua tetta, non è sicuro che avrai sempre il suo cuore.
Tu prendi una donna e levagli le tette, sotto veste un cuore. Strappagli pure quello altrimenti prima o poi la perdi.
Forse per questo gli uomini soffrono di più per amore: non hanno due tette a protezione del cuore.
Tornai indietro dalla signora del giornale, rimisi la tetta al suo posto e tagliai la figura intera.
Sul foglio rimase un uomo nudo, in una posizione strana, grottesca. Osservai il vuoto lasciato dalla figura femminile: senza le donne gli uomini sono ridicoli.
Ad una donna nuda con le mani in tasca non ci crede nessuno. Ad una donna nuda in tasca invece si: basta mostrarla.
Divenni l'eroe dei miei quattro amici, volevamo cambiare il mondo come quelli della canzone di Gino Paoli ma non ci era concesso di entrare nei bar. Allora noi facevamo la nostra rivoluzione fuori da quelle vetrine ingiallite come i denti di chi faceva delle infinite partite a carte.
La nostra rivoluzione era una donna ritagliata da un giornale e la sua tetta rimovibile macchiata del mio sangue.
Guardavamo la figura nuda, ci guardavamo. Ci guardavamo e poi guardavamo la figura nuda. Poi guardavamo il pallone da calcio, poi la tetta rimovibile poi ancora il pallone da calcio.
Erano ancora i tempi in cui una sfera di cuoio ci attirava più di due tette. La donna nuda planò leggera verso l'asfalto mentre noi già sudavamo appresso al pallone.
Rimandammo le donne e il sesso a dopo il novantesimo minuto della nostra fanciullezza, quando il triplice fischio dell'arbitro – il signor Ormone da Sinapsi – avrebbe decretato la fine di quella bella partita che è l'innocenza, catapultandoci negli odiati tempi supplementari della giovinezza: l'adolescenza.
Ve lo anticipo, l'adolescenza finisce sempre ai rigori. Demetrio Albertini, dopo USA '94, non si è mai liberato dei brufoli.
Era l'estate del mio decimo compleanno. Era l'estate della mia prima donna nuda, tagliata, sezionata come le lucertole che acchiappavo sui muri quando andavo in campagna.
Conoscevo intimamente donne e lucertole e questo mi faceva sentire un erudito.
Le mie compagne di classe, però, non assomigliavano alla donna del giornale – o almeno, non ancora.
Notavo stranamente che la fantasia non mi rivelava le loro ipotetiche nudità; non riuscivo a infilare malizia tra le loro divise scolastiche blu. Comunque la fantasia non mi serviva, avevo una donna nuda in tasca. Il problema è che non sapevo bene cosa farci.
L'istinto mi spingeva comunque a vederci chiaro. L'istinto è la consapevolezza che c'è qualcosa di invisibile da dover imparare.
Non capivo cosa ci potesse essere di invisibile in una donna nuda. Scorrevo con gli occhi le sue curve rese spigolose dal mio sforbiciare maldestro, ma niente: non capivo.
Allora decisi che avrei dovuto abbandonare quella carta ormai sgualcita e dedicarmi alle donne vere. Avrei osservato la donne dal vivo.
La prima occasione di presentò al matrimonio di una mia cugina. Le persone erano tutte in tiro, gli uomini incravattati come impiccati e le donne incatramate sotto uno spesso strato di fondotinta.
Trovavo assurdo il make up dei matrimoni, si coprivano difetti talmente tanto in modo esagerato che ne spuntavano altri, ne affioravano di nuovi in superficie come i fili d'erba su una strada asfaltata.
E proprio su quelle autostrade incipriate correvano i miei occhi; osservavo i lineamenti di tutte con viva curiosità.
Le vedevo bere a labbra strette, sorseggiavano un liquido bianco servito in bicchieri sottili. Lo chiamavano “Prosecco”. A prima vista mi sembrava acqua con le bollicine.
Per conoscere il nemico bisogna vivere come il nemico. Per conoscere le donne bisogna vivere come le donne: cominciai a criticare i vestiti di tutti.
Il passo successivo era assaggiare quel famigerato Prosecco. Ne afferrai una bottiglia furtivamente, scappai in bagno e la tracannai tutta senza assaporare.
Era l’estate del mio decimo compleanno, della mia prima donna nuda, del mio primo Prosecco.
Il bello dell’alcol è che per almeno tre ore i tuoi problemi diventano i problemi degli altri.
Io avevo un solo grande problema: la curiosità.
La curiosità è una stronzetta che ti fa mettere la mano sul fuoco per vedere che effetto fa.
Poi ti fai male, ti scotti, rimane la ferita. Quella ferita è la cultura.
Quello si che era un bel proposito di vita: mettere la mano su innumerevoli fuochi; persistere nel dolore. E dopo anni di bruciature finalmente ritrovarsi con una gran cultura, bella rosolata, al dente.
Imbottito di Prosecco me ne andavo in giro in cerca di tizzoni ardenti.
M’attiravano parecchio le cosce nude delle belle donne presenti in sala. Approfittando della confusione, insinuavo il naso tra quei pizzi colorati, oltre gli orli, quasi fin dentro la biancheria.
La cosa mi era facilitata dal ballo poiché tutte si dimenavano avvinghiate le une alle altre; visto che si doveva essere goffi, tanto valeva essere goffi tutti insieme.
Le facce sudavano. Le facce si scrostavano. Le facce sorridevano e si scrostavano. Poi non sorridevano più. Il sorriso si liberava dall’incantesimo della pietra, ma facendolo moriva.
Io ai piani bassi camminavo carponi, annusavo polpacci, alzavo gonne svolazzanti.
Quello che trovavo era grossomodo simile in tutte: mutande bianche.
Era l’estate del mio decimo compleanno, della mia prima donna nuda, del mio primo Prosecco, di un’innumerevole serie di mutande femminili.
La mia vista era annebbiata dal liquido che avevo ingoiato. In lontananza, oltre il groviglio di corpi danzanti, vidi un animale strano.
Se ne stava raggomitolato sotto un tavolo – lo vedevo bene perché ero ancora carponi – non emetteva suoni.
Avvicinandomi ne definivo meglio le fattezze. Sembrava un essere cangiante, multiforme; come una specie di camaleonte evoluto.
Distinguevo bene le due grosse gambe, il resto del corpo era nascosto dalla lunga tovaglia del tavolo.
Ai piedi aveva zoccoli grigi, grezzi, enormi. Pelo sulla parte di corpo visibile. Avrebbe dovuto essere una capra.
Stop.
Esco un attimo dal racconto per farvi notare una cosa.
Notate con quale scioltezza oratoria espongo la situazione, notate con che maestria descrivo l’essere in questione: “Ai piedi aveva zoccoli grigi, grezzi, enormi. Pelo sulla parte di corpo visibile”.
Bello l’espediente di usare due frasi con lo stesso oggetto eh?! Frantumare una descrizione su tue frasi separate dal punto fermo. Da premio Nobel.
Notate con che disinvoltura uso il verbo “Avrebbe dovuto”. Ho la consapevolezza dei verbi io, sapete?
Ad esempio il verbo “Avere”. L’italiano è una lingua così diplomatica che ha declassato questo verbo ma al tempo stesso lo ha anche promosso.
In latino non era un verbo ausiliare. L’italiano gli ha conferito la carica di ausiliare con cerimonia in pompa magna. Sarebbe un po’ come nominare Cavaliere della Repubblica un povero cristo qualsiasi. Ti onora spillandoti soldi.
Così il verbo Avere: lo hanno onorato facendolo diventare assistente di un altro verbo. Razzismo grammaticale.
Ma tornando al racconto, notate ancora come accosto “Avrebbe dovuto” con “essere una capra”.
“Avrebbe” e non “deve”. Come per dire: “Come avrei voluto che fosse una capra”. Oppure: “Porca miseria! Secondo i miei piani avrebbe dovuto essere una capra”.
Detto questo torno a vestire i panni dello scrittore.
I panni dello scrittore consistono sostanzialmente in una tutta che da l’invisibilità. La indosso e me ne vado in giro per i fogli bianchi, come fossi il vento.
Il vento non si vede ma c’è. Basta guardare le dune nel deserto: le disegna il vento.
Uno scrittore è il vento nel deserto e le dune sono il foglio bianco.
Avviso ai lettori: attenzione agli scorpioni.
Era l’estate del mio decimo compleanno, della mia prima donna nuda, del mio primo Prosecco, di un’innumerevole serie di mutande femminili e, finalmente, della mia prima capra.
Questa era una capra particolare: aveva la cellulite.
Cellulite e vene enormi e verdi su uno sfondo di pelle bianca raggrinzita.
Era una capra con la gonna a pois. Era una capra con una pancia enorme. Era una capra con doppio mento e baffi.
Era una capra mitologica: metà capra e metà nonna Ilde.
Ora: calcolando che avevo un litro di Prosecco in corpo; calcolando che mia nonna non ha le gambe più belle del mondo e, come se non bastasse, si chiama Ilde (tipico nome da vacca). Penso sia normale, nell’estate del mio decimo compleanno, aver preso fischi per fiaschi. O meglio, prima i fiaschi (quello di prosecco) e poi i fischi (quelli delle mie orecchie in seguito allo schiaffone che ricevetti).
Questa storia ha due morali.
Morale numero uno: mai cercare di conoscere una donna partendo dal basso. Il massimo che otterrete sono calci e cellulite.
Morale numero due: mai leggere uno scrittore che ha iniziato a scrivere un racconto basandosi su un titolo che lo divertiva, non avendo però la minima idea di come sarebbe finito.
Gli scrittori che non hanno una trama, tramano contro di voi. Sappiatelo.
Raffaele Montesano