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Il mio incontro con Leo Fender
Il mio incontro con Leo Fender
di [user #3] - pubblicato il

Quando vedo una chitarra Fender non posso fare a meno di pensare all’uomo geniale che l'ha ideata, dando un contributo determinante all'evoluzione della musica. Già, perché ogni chitarra elettrica, anche la più innovativa e radicale, è basata sull’intuizione di Leo. Ho avuto l'opportunità di conoscerlo nel 1984 e ho trascorso con lui alcune ore di cui conservo un ricordo straordinario, oltre a una foto con dedica che mi è preziosissima.
Agosto 1984, a Los Angeles si sono appena concluse le olimpiadi del boicottaggio sovietico. Il passaggio a visitare il mega stadio in cui ci sono dati battaglia gli eroi dell’atletica è veloce, in realtà sono venuto in città con lo scopo preciso di respirare l’aria di Fullerton, dove hanno visto la luce le prime chitarre Fender e dove sono ancora costruite (purtroppo ancora per poco, come si saprà pochi mesi dopo).
La vecchia Pontiac Trans Am noleggiata per pochi soldi mi scarrozza attraverso la Orange County, fino a un motel Ramada poco più che decente. Appena preso possesso della stanza, prima ancora di aprire la valigia, mi attacco al telefono.

“Hi, it's Alberto Biraghi, weeks ago I sent you a fax to arrange an appointment for a visit to the factory, you replied that it's OK, asking to call one day in advance. So here I am!"

La "factory" in questione è la G&L, ultima creazione di un uomo geniale. Dopo aver ceduto l’azienda che porta il suo nome alla CBS nel 1965, Clarence Leo Fender ha continuato a lavorare nel settore, prima come consulente per la stessa Fender, dal 1970 costruendo le chitarre per Music Man e finalmente nel 1981 creando una nuova azienda tutta sua, la G&L, assieme al socio di sempre George Fullerton.

“Hi Mister Biraghi, welcome in California. I am terribly sorry, but for liability problems we were forced to close the factory access for visitors since last week".
Sto già pensando se deprimermi o infuriarmi quando dopo una breve pausa la persona aggiunge: "but if you come to visit us anyway, Mr. Fender will be happy to meet you".

Il mio incontro con Leo Fender

Bingo! Ringrazio sicuro che l’indomani sono sul posto. Confesso di aver dormito poco, nonostante la buona dose di birra Corona trangugiata a cena dal ristorante messicano della mia catena preferita.
La mattina dopo il limite di 55 miglia all’ora viene superato spesso dalla Trans Am. "I can't drive 55" canta in quei giorni Sammy Hagar nel suo nuovo album VOA (fantastico il video originale) e allora lo imito un po', anche grazie a uno di quei sorprendenti "radar detector" da poco comparsi sul mercato americano per gabbare i limiti di velocità.



La G&L ha la sua sede in un prefabbricato recente in via Fender (esatto, gli hanno dedicato una via). L'edifico è basso, minimalista, con solo una targhetta e un citofono fuori dalla porta, non si direbbe proprio che qui dentro lavori un multimiliardario, un genio senza il quale la musica moderna non sarebbe ciò che è.

Entro e senza troppe formalità vengo introdotto in una stanza in cui ci sono solo tre grandi tavoli, ingombri di innumerevoli attrezzature e strumenti elettronici. Passano solo pochi secondi, poi una porta si apre ed entra la leggenda. Confesso di essermi passato sui jeans la mano sudaticcia per l'emozione prima di stringere la sua.
Leo Fender indossa pantaloni di cotone, camicia azzurra con taschino pieno di penne e cacciaviti, occhiali sul naso e uno strano aggeggio sulla testa, una specie di corona di plastica che incorpora una luce e una lente di ingrandimento.
Mi viene incontro sorridente, mi dice “so you are interested in my electric guitars”, si siede su una sedia e mentre io tento di riprendermi  dall’emozione lui comincia a parlare dei vecchi tempi.

"Il primo problema fu la tastiera. Quando progettavamo l'Esquire abbiamo provato a usare un manico ricavato da una buona chitarra acustica. Niente da fare, era troppo stonato, perché una solid body produce meno armoniche di una acustica, quindi le imperfezioni di intonazione si evidenziano in modo insopportabile. E allora abbiamo dovuto inventare un nuovo sistema per collocare i tasti che garantisse una precisione sconosciuta a quell’epoca. Poi c’era la difficoltà dell’intonazione, che cambia al variare del diametro delle corde. Così abbiamo inventato il ponte regolabile".

La prima chitarra solid body costruita sul larga scala nasce come Esquire, poi cambia nome in Broadcaster e tra la fine del 1951 e l'inizio del 1952 assume il nome definitivo: Telecaster. Tutt’oggi, dopo tre quarti di secolo, non è un cimelio, ma uno strumento preferito da innumerevoli chitarristi.

Il mio incontro con Leo Fender

Non è difficile parlare con Leo Fender, il tema lo appassiona e ricorda volentieri le tappe che l’hanno portato a progettare le sue più belle creature. Il suo approccio è assolutamente tecnico: non è mai stato un musicista, per lui una corda che vibra non produce musica, ma produce "una fondamentale e alcune armoniche, di cui la seconda è la più critica ai fini dell’intonazione lo strumento".
Questo è forse il segreto di quest’uomo, quel segreto che gli ha permesso di creare strumenti che hanno cambiato la musica nel mondo.

Gli racconto che ho una Stratocaster costruita nel 1956, lui sorride e mi dice "però, funziona ancora, vuol dire che le facevamo proprio bene", come se si trattasse di un attrezzo da idraulico.
Poi capisco che ha voglia di parlare delle novità quando si mette a descrivere ciò che sta facendo. Si gira, prende una chitarra di legno grezzo dal rack dietro di lui e me la mette in mano.
"Questo è il prototipo della nostra nuova chitarra, la Invader, un humbucking, due single coil e un nuovo ponte G&L Dual Fulcrum a cui abbiamo aggiunto il sistema di accordatura fine".
Oggi ce ne sono a tutti gli angoli di strada di chitarre così? Anche più efficienti, certo, ma non dimentichiamo che si questo accadeva nel 1984, quando Jackson e Ibanez non avevano ancora inondato il mercato con i loro strumenti shred ad alta tecnologia.
Impeccabile, la Invader. Una tastiera in palissandro scorrevolissima con raggio di curvatura da 12”. Non un ronzio e belle sonorità: i classici Fender ci sono tutti, con il pickup al ponte splittato e i due single coil. L'humbucker al ponte con entrambi gli avvolgimenti inseriti produce una timbrica piena, calda, non eccessivamente pompata.
Il ponte è un burro, dolcissimo. Le corde ritornano perfette in intonazione anche dopo un uso violento.

"L'innovazione più importante è nel manico. Le nostre chitarre attuali escono dalla fabbrica perfettamente regolate, ma gli sbalzi di temperatura e umidità durante il trasporto possono procurare dei movimenti di assestamento nel legno e quando giungono destinazione devono essere messe a punto, soprattutto se vanno in un Paese con clima diverso. Allora ho pensato a una guaina che avvolge l’asta del trussrod e la isola. Inoltre uso speciali collanti sintetici insensibili al cambiamenti atmosferici. Questo nuovo manico è nato con la Invader ma è esteso a tutte le G&L, che da oggi potranno essere tolte dall’imballaggio e suonate in concerto in ogni parte del mondo senza bisogno di regolare una sola vite".

Il mio incontro con Leo Fender

Il tempo è volato, passerei qui un mese, senza mangiare e senza bere, ad ascoltare quest’uomo di oltre ottant’anni, con all’attivo più di 100 brevetti, che ancora lavora sodo. Ma capisco che deve tornare nel suo mondo.
Lo ringrazio e mi congedo, portando con me la sensazione di aver incontrato uno dei maggiori protagonisti della storia della musica mondiale.
interviste leo fender
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