Ho sempre considerato poco e male quella che con la Les Paul è l'icona del chitarrismo elettrico: la Stratocaster. Forse per una qualche forma di pudore non mi sono mai ritenuto alla sua altezza, per i tanti miti che l'hanno utilizzata. Avendo la precisa cognizione dei miei limiti, l'ho sempre ritenuta troppo delicata per i suoni rozzi e grunge/stoner che invece tiro fuori senza problemi dai miei strumenti: Les Paul, Asat e Jaguar. Eppure mi solleticava, ogni tanto, il desiderio di poter esplorare anch'io quella sonorità, quel pickup inclinato in combinazione con il centro (che per me è il vero suono Strat).Persa l'occasione di portarmi a casa una Clapton 7UP Green (a qualcuno qui ronzeranno le orecchie), ho capito che ne desideravo una. E ho cominciato a mettere a fuoco il bersaglio: l'avrei presa usata, preferibilmente orientale, possibilmente Japan, magari tastiera in acero e, perché no, spendendo massimo 500 euro. Doveva avere una sola caratteristica: i tre single coil e nessuna diavoleria, meccaniche normali e quel suono lì.
Dopo aver scartato tre o quattro occasioni (una aveva un humbucker, un'altra un ponte Khaler terrificante su una Giapponesina '87, un'altra ancora costava troppo), stavo ragionando sulla possibilità di farmene una, quando a un tratto una Squier davanti ai miei occhi, ritrovata in una cantina chiusa da quasi trent'anni.
Condizioni pietose. Leggo il seriale sulla paletta: dice 1986, made in Japan. Il ragazzo che me l'ha portata non sa che farsene, la stava letteralmente buttando nella spazzatura, al che mi dice "ma se ti piace, dammi ottanta euro e te la prendi". Complice la mia innata faccia di bronzo, gli metto 60 euro in mano seduta stante e mi becco la mia Stratocaster!
Torno a casa, la smonto, verifico un po' di cose, ed effettivamente pare essere tutto originale! Dovrebbe essere una Standard, effettivamente prodotta nel 1986 in Giappone, ponte vintage, meccaniche marcate Fender che ho ritrovato su molte di quelle produzioni, tastiera in palissandro, colore blu.
Mi metto quindi all'opera, la ripulisco dalla polvere e dallo sporco dei decenni trascorsi (la tastiera era un vivace e fantasioso insieme di munnezza), pulisco e lucido i tasti (tendenti al verde), lubrifico le sellette, smonto il manico e lo raddrizzo un po' agendo sulla vite del truss rod alla base dello stesso (sembrava il campo da calcio di Holly & Benji) e naturalmente monto le mie fidate .011 Rotosound (sì, anche sulla Strat!).
La ficco nel piccolo Fender 5 watt e... ragazzi è lei! Corpo, dinamica, presenza, attacco, suono pulito ma sorprendentemente anche aggressivo all'occorrenza. Ho finalmente una Stratocaster! Faccio addirittura in tempo a ficcarla in qualche pezzo del disco del mio gruppo, e dopo un paio di mesi becco un folle su quel noto sito di compravendita di strumenti che in cambio di un antico compressore Ibanez mi molla un ponte Kluson vintage ancora sigillato! Lo monto, approfittando delle (meritate) vacanze e... spettacolo, da spenta suona il doppio!
A questo punto la guardo e vedo quel battipenna, troppo nuovo, troppo bianco. La japponesina ha quasi trent'anni, qualche ruga la mostra, ma quel battipenna è un pugno in un occhio. Mi armo quindi di pazienza, di carta vetro leggera e bagnata e gratto via un po' di quella plasticaccia lucida: metto quindi a bagno il battipenna nel tè per due giorni e... fantastico: il battipenna ha un colore meraviglioso.
Non sarà la storia più originale del mondo, non sarà una chitarra prestigiosa o particolare, ma con pochi, pochissimi spiccioli ho anch'io una Stratocaster, e sto cominciando a esplorare il mondo del blues sullo strumento che ne ha fatto la storia. SRV, se mi senti, perdonami.